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vincenzo
VERBANIA ­– 25.04.2015 – Settant’anni fa 
la Liberazione. Nel giorno della celebrazione e delle cerimonie ufficiali, oltre alla cronaca offriamo uno spunto in più.

Il racconto che segue è una storia vera, che inizia ai giorni nostri, quando un poliziotto in pensione che vive nel Vco, rispolverando un filmato in cui il padre raccontava di quegli anni, ha avviato un’indagine personale. Partendo solo da una foto e dai nomi di due donne, tra ricerche, interviste e esame del Dna ha scoperto di avere una sorellastra nell’isola greca di Kos.

Quella di Kos è una strage dimenticata. I soldati italiani furono attaccati dagli ex alleati tedeschi. Gli ufficiali vennero passati per le armi. Chi si salvò venne fatto prigioniero e trasferito ai lavori forzati in Germania.

Il XXV Aprile è anche loro. Di tutti coloro che, nell’eroismo della quotidianità, sopportarono il fardello di quel periodo nero e, dopo la Liberazione, ricostruirono il Paese che hanno consegnato alle generazioni di oggi.

Il testo è il racconto dell’anziano – scomparso da qualche anno – trascritto. L’epilogo, taciuto, è che dopo aver lasciato la ragazza incinta in Grecia, è tornato dalla sua famiglia italiana ripartendo daccapo e scordandosi per sempre di Kos senza mai sapere della nascita della figlia.

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Nell’ottobre del 1941 mi richiamarono alle armi. Lavoravo nei campi coi miei genitori e i fratelli, al paese. Fu dichiarata la guerra e venni nuovamente arruolato nell’esercito. M’assegnarono al X Reggimento fanteria ‘Regina’, diretto nell’Egeo. Stazionammo a Rodi e ci stabilimmo a Kos. Eravamo circa 4.000 e io, promosso nel frattempo sergente, dovevo sorvegliare l’aeroporto di Antimachia e i piloti della 396ª squadriglia di caccia della Regia Aeronautica.

Dopo l’Armistizio avevamo il cuore colmo di speranza. Sognavamo il ritorno a casa. I tedeschi s’erano ritirati dall’isola, sostituiti dalle truppe inglesi e da un battaglione di indiani. Noi lo ignoravamo, ma Rodi e Kos erano diventati obiettivi strategici della riconquista tedesca nell’operazione chiamata Eisbar, Orso polare.

Nella notte tra il 3 e il 4 ottobre mi trovavo coi commilitoni della 22esima batteria, agli ordini del capitano Camillo Nasca. Presidiavamo l’artiglieria accanto alla pista. Udimmo un ronzio acuto: gli aerei della Luftwaffe. Temevamo un bombardamento, ma ci fu un massiccio lancio di paracadutisti. Terrorizzati dal pensiero di venir circondati dalla Luftlande, la fanteria aerotrasportata, iniziammo a rispondere al fuoco. Un soldato arrivò riferendo al capitano che altri tedeschi stavano sbarcando sulla costa. Quando i nemici furono vicini, la situazione precipitò. Il comandante, fascista convinto, diede ordine di invertire il tiro, colpendo anziché i tedeschi, gli inglesi, insieme ai quali c’erano anche commilitoni italiani. Ci rifiutammo e lui, insieme al suo vice, si mise di persona al cannone. La battaglia durò tutto il giorno successivo. Rimasi ferito da alcune schegge al collo e alla gamba. Sanguinavo ma non ero in pericolo di vita. Quando il comandante innalzò la bandiera tedesca, spaventato, scappai.

La battaglia era finita. I tedeschi avevano vinto. Al tramonto del 4 ottobre, insieme a un commilitone, trovai rifugio tra le colline. Una famiglia di pastori ci indicò una grotta, dove ci nascondemmo. Era una spelonca in cui si separavano dal gregge le pecore che si rifiutavano di allattare gli agnelli: una sorta di camera di punizione. Le ferite smisero di sanguinare e, miracolosamente, non si infettarono. Eravamo salvi, ma avevamo fame. Una fame tremenda, fortissima. Stremati e con la vista annebbiata, uscimmo quattro giorni più tardi alla ricerca di cibo. Indossavo ancora la divisa, ma avevo avuto strappato i gradi di sergente. Vagammo finché non fummo individuati da una pattuglia, arrestati e condotti nel castello della città di Kos. Ai tedeschi non dissi che ero sottoufficiale, né che m’ero ferito mentre li combattevo: mi avrebbero giustiziato. Al castello ci dissero che il 6 ottobre, come ritorsione, erano stati fucilati a piccoli gruppi quasi tutti i nostri ufficiali (103), i cui corpi erano stati gettati chissà dove. Si erano rifiutati di collaborare con la Germania e di rinnegare il Re e Badoglio.

I tedeschi ci odiavano e ci vessavano. Pensavamo che presto anche noi saremmo stati giustiziati. Dopo qualche tempo però ci dissero che ce ne saremmo andati. Ci imbarcavano per la Grecia, e da lì per la Germania come prigionieri di guerra. Al porto fummo divisi in due file, una per ogni piroscafo confiscato per il trasporto merci e prigionieri. Fui spinto a forza verso sinistra. Nell’attesa mi misi a giocare con un cane randagio, che tirandomi i lacci degli scarponi mi condusse nell’altra fila. Tentai di rientrare, ma un soldato tedesco me lo impedì minacciandomi col mitra. Fu la mia fortuna perché, fuori la rada, un sottomarino britannico silurò, affondandolo, il piroscafo sul quale mi sarei dovuto imbarcare.

Ad Atene venni caricato su un treno e stipato in un carro bestiame caldo, buio e maleodorante. Dopo una sosta in Croazia raggiunsi Berlino. Dalla stazione ci condussero, a piedi, fino a un campo di smistamento. Poi io fui indirizzato in un campo di lavoro, lo Stalag III-D. Tutti i giorni ci mandavano a lavorare in una fabbrica di Spandau. La vita era dura, soprattutto per i “traditori” italiani. Sopravvissi fino all’aprile del 1945, quando i sovietici liberarono il campo.

Nessuno pareva interessarsi a me e così, un giorno, mi recai alla stazione. Su un binario era in partenza un treno di prigionieri greci che, gioiosi, cantavano e festeggiavano il momento del ritorno a casa. Mi unii a loro dicendo che ero sposato con una ragazza greca. Una ventina di giorni dopo fui ad Atene. Gli inglesi inizialmente mi scambiarono per un partigiano greco, ma quando scoprirono che ero italiano mi rispedirono a casa, dove arrivai verso la fine del 1945”.

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